Tumore della prostata in Italia: mortalità in calo dal 2000 non solo grazie alla diagnosi precoce. Fondamentali i percorsi di cura personalizzati per ogni classe di rischio

Presentato all’Istituto Nazionale dei Tumori il primo studio di popolazione che fotografa 4635 casi di tumore della prostata. Il team del professor Valdagni dimostra che gran parte delle diagnosi riguarda casi a bassa aggressività, che spesso non andrebbero trattati. Il consiglio ai pazienti: “Affidatevi a team multidisciplinari per ricevere trattamenti su misura a seconda della classe di rischio”.

 Milano, 5 ottobre 2016 – Sempre più diagnosi, ma al contempo dati che suggeriscono un eccessivo trattamento dei tumori meno aggressivi e il sotto-trattamento dei pazienti anziani.

È la prima istantanea scattata in Italia sul tumore della prostata. Mettendo a confronto due distinti periodi di tempo (1996-1999 e 2005-2007), descrive l’evoluzione nella diagnosi e nel trattamento di questo tipo di tumore nel nostro Paese.

L’indagine (Prostate cancer changes in clinical  presentation and treatments in two decades: an Italian population – based study, primo autore Annalisa Trama), pubblicata nei giorni scorsi sullo European Journal of Cancer, è stata realizzata dall’Istituto Nazionale dei Tumori in collaborazione con l’Associazione Italiana Registri Tumori (AIRTUM), anche grazie al sostegno di AIRC e Amgen. Consiste in uno studio osservazionale retrospettivo di popolazione condotto dalla Struttura di Epidemiologia Valutativa coordinata dalla dottoressa Gemma Gatta. Delinea una marcata evoluzione nel trattamento del cancro della prostata e suggerisce la necessità di un nuovo approccio critico a questo tipo di tumore, già a partire dalla diagnosi precoce.

In particolare, il confronto fra i due periodi di tempo presi in esame evidenzia un aumento dei pazienti che arrivano alla diagnosi con classe di rischio bassa, una riduzione di quelli diagnosticati in fase tardiva (classe di rischio alta o metastatica) e un miglioramento complessivo della sopravvivenza nei gruppi ad alto rischio.

A determinare questo trend hanno contribuito il miglioramento terapeutico e la diagnosi precoce.

La fotografia mostra inoltre un diverso approccio di cura a seconda della fascia di età dei pazienti: più interventi invasivi per gli uomini giovani – con incremento della prostatectomia radicale ma non della radioterapia per gli uomini sotto i 75 anni – e più rari gli interventi radicali nei pazienti sopra i 75 anni.

Lo studio mette quindi in luce un possibile ‘overtreatment’ dei pazienti a basso rischio, e per converso un sottotrattamento dei pazienti più anziani.

 Grazie alla diagnosi precoce, negli anni si è verificato un calo della mortalità. Questo ci permette di avere meno casi di diagnosi in fase di tumore aggressivo – spiega il professor Valdagni, Direttore della Radioterapia Oncologica 1 e Direttore del Programma Prostata dell’Istituto Nazionale dei Tumori. I dati però ci mostrano anche un ‘rovescio della medaglia’, e cioè il sospetto che non manchino casi di trattamenti eccessivi e troppo radicali, spesso non necessari: effettuando diagnosi su molti pazienti, infatti, occorre utilizzare particolari cautele nei casi in cui il tumore sia poco aggressivo. In determinate situazioni cliniche non è necessario intervenire subito in modo radicale (chirurgia, radioterapia esterna, brachiterapia), ma è consigliabile sottoporre il paziente a sorveglianza attiva, cioè a un percorso di monitoraggio del tumore definito a rischio di progressione basso e molto basso. Ciò consentirebbe di limitare i casi di overtreatment dei tumori indolenti, e quindi gli effetti collaterali delle terapie, riuscendo a garantire al paziente una migliore qualità di vita”.

“Per questo – aggiunge il dottor Nicola Nicolai, Vice Responsabile della Prostate Cancer Unit dell’INT dalle contraddizioni emerse dal nostro studio nell’approccio al tumore della prostata, possiamo ricavare anzitutto la necessità di un approccio sistematico a questa neoplasia, e il conseguente consiglio di affidarsi a team multidisciplinari che operino in centri qualificati, e possano così seguire il paziente attraverso un percorso di medicina personalizzata”.

Lo studio infatti mostra che nel periodo 2005-2007, quando l’idea di un modello di presa in carico multidisciplinare non era ancora diffuso mentre era già diffuso il test del Psa, si è assistito a un aumento delle diagnosi di tumori a basso rischio, cioè non letali, ma non a una corrispondente riduzione dei trattamenti invasivi o comunque radicali. L’opzione della sorveglianza attiva, vera alternativa al sovra-trattamento, non era ancora disponibile.

Oggi, invece, è riconosciuto che la multidisciplinarietà del team che prende in carico il paziente e la sorveglianza attiva sono le strategie più efficaci, perché il monitoraggio e l’attesa richiedono professionalità specifiche, e sono la sola strada che può consentire di trattare al meglio le situazioni di rischio ridotto, con evidente vantaggio per i pazienti soprattutto dal punto di vista della qualità di vita”, conclude il professor Valdagni.

I risultati di questo studio sono di fondamentale importanza anche per fornire ai decisori politici una visione di insieme di tipo epidemiologico-sanitario, in termini di trattamento del tumore della prostata e per pianificare e implementare strategie di diagnosi, cura e monitoraggio sempre più efficaci. Si rende quindi necessario dare continuità ai flussi e ai dati in nostro possesso per programmare nuovi interventi con uno sguardo verso il futuro – commenta infine il Direttore Scientifico di INT, Giovanni Apolone -. Il nostro Istituto, un IRCCS di natura pubblica e non-profit,  continua ad investire in questo settore di ricerca che combina esperienze di natura clinica ed epidemiologica,  e condurce numerose ricerche di questa portata per diversi tipi di tumore: l’obiettivo è garantire azioni di tipo trasversale e traslazionale, che consentano il più rapido trasferimento delle nuove informazioni e delle evidenze, non solo alla terapia ed alla gestione clinica del paziente, ma anche al tavolo di lavoro dei decision maker sanitari”.

 

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